Fortezza Europa

In origine “Fortezza Europa” (Festung Europa, Fortress Europe) era l’espressione con cui la propaganda del Terzo Reich definiva l’Europa continentale sottoposta al controllo politico-militare nazista a evidenziare l’invulnerabilità militare del dominio della Germania. Non è un caso se oggi la stessa espressione si usa quindi, per lo più, in riferimento all’impenetrabilità dell’Unione europea da parte dei profughi di guerre e miseria.

Fortress Europe

È sul bastione orientale di questa “fortezza” che si concentra l’attenzione di questa puntata di Checkpoint su Rainews, che vi consiglio, come già il numero in edicola del settimanale Left (ne ho parlato qui). La conduttrice Marina Lalovic ne parla con l’inviato Ilario Piagnerelli, che dal 2015 segue i trattamenti inumani e degradanti riservati lungo la cosiddetta “rotta balcanica” a migranti di ogni provenienza, e con la giornalista di origini bosniache Asra Nuhefendic.  Altro invito è quello a firmare la petizione relativa, su Change, a questo link.

Nel frattempo la bella notizia, riportata sia nella trasmissione di Rainews che in questo articolo di Internazionale, è che il Tribunale di Roma ha pronunciato la prima condanna per il respingimento illegale di un cittadino pachistano.

Chi ha letto Mare in fiamme sa che è proprio dalla frontiera bosniaca che è passato uno dei protagonisti, il piccolo curdo Zihad.

Ma poi alla memoria sono venuti anche altri dettagli, come le tende bianche e le casette, grigie, basse, e Zoran, e Irma con i nipotini avvolti dentro al cappotto, e il filo spinato, e le candele con le fiammelle tremolanti nel buio, e gli stivali che affondano nel terreno fradicio e gli strilli delle donne. E la neve. Soprattutto la neve. Quanta neve quell’inverno. A lui faceva paura. Niente poteva sfuggirle. In cielo come in terra. Gli era sembrato di non averla mai vista prima, anche se sua mamma glielo ripeteva: «La conosci già, tesoro, solo che non te ne puoi ricordare». In Turchia, a casa, di neve ce n’era tanta. Lassù, sui monti su cui stava appollaiato Zegrat, una ventina di casette basse raccolte intorno a quella che ospitava l’emporio da un lato e la moschea dall’altro, per un paio di centinaia di abitanti. Ma lì a Zihad non aveva fatto paura. Gli era piaciuta anzi, solo che era troppo piccolo perché possa ricordarsene adesso, mentre gli occhi della sua mente vagano fra i fantasmi che animano le prime memorie della sua vita.

Come i vari elementi dell’affresco di neve si leghino fra loro, cosa accada prima e dopo, cosa stia sopra o sotto, cosa si muova verso destra o sinistra, e soprattutto cosa stia dentro o fuori le cose, le case, le casette, il bambino lo ignora.

Vale anche per il cadavere di suo papà. Lo ricorda al chiuso, sotto un soffitto basso, fra volti tremanti di freddo e candele, ma anche all’aperto, in un raro momento di pausa della nevicata. «Allah ci permette di seppellirlo!» aveva gridato qualcuno a un certo punto, e il piccolo corteo si era mosso. Quelle parole, ruggite da uno dei tanti volti sconosciuti, graffiano ancora come quel giorno. A pronunciarle fu un vecchio, ma gli uomini erano tutti vecchi, laggiù. Anche i giovani.