Rifugiati contro migranti
Le parole sono importanti. Con le parole si scrivono romanzi, saggi, poesie, ma anche leggi, regole e inchieste. Come tutte le cose importanti, anche le parole possono diventare strumento di manipolazione e sopraffazione.
Ed è quello che, ormai da decenni, accade quando si descrive la fuga di donne, uomini e bambini da paesi in guerra, dittature, o (citando l’Alto commissariato dell’ONU, come si legge QUI) “persecuzioni, conflitti, violenze o altre circostanze che minacciano l’ordine pubblico”. Esattamente quello che sta accadendo in Afghanistan. Lasciar entrare in Italia (e in Europa) chi fugge da questo paese, anzi proteggerle/i, è un dovere, così come entrare ed essere protette/i, per chi scappa, è un diritto riconosciuto a livello internazionale. Eppure, da più parti già si invoca il solito “aiutiamoli a casa loro”, l’odioso ritornello che ben si abbina a quel processo di manipolazione di cui sopra, che consiste nella sistematica sostituzione del termine “rifugiati” (persone che devono sempre e comunque essere accolte) con “migranti” (persone che purtroppo possono essere respinte, e per di più con facilità negli ultimi anni crescente, grazie alla modifica delle leggi vigenti).
Per l’Afghanistan non è ancora successo. È ancora presto, il dramma annunciato della presa di potere dei Taliban è troppo recente, c’è bisogno di lasciar smaltire lo shock. Dopodiché, assisteremo probabilmente anche in questo caso alla metamorfosi che vedrà le disperate e i disperati in fuga da questo paese subire la degradazione semantica della loro natura giuridica (e umana): da rifugiati a “semplici” migranti. È già successo per Somalia, Eritrea, ex Jugoslavia, Albania, Libia. Solo per restare alle nazioni e alle regioni del mondo in cui i conflitti della citata definizione dell’UNHCR li abbiamo causati noi italiani, con il nostro tardivo colonialismo pre-fascista e fascista. Ma è successo solo pochi anni fa anche con la Siria.
Per quale ragione chi fugge dalla guerra civile in Eritrea o in Libia è definito “migrante” e chi fugge dall’Afghanistan è (almeno fino a oggi) definito “rifugiato”? Perché chi affronta il mediterraneo in tempesta pur di fuggire da morte certa nel suo paese sarebbe un “migrante” e non un “rifugiato”? La risposta è semplice. È solo questione di tempo. Coloro che fuggono da un certo luogo hanno spesso goduto dello status di “rifugiato” per un breve periodo iniziale. Presto o tardi subentra l’assuefazione: morti, talebani, barconi, centri di detenzione, incendi nelle isole, salti di mura in massa, naufragi perdono l’attenzione delle prime pagine e scatta la metamorfosi semantica che degrada gli esseri umani che ne sono vittime a sub-umani, “migranti” senza diritti o con diritti (sempre più) limitati.
Del resto, noi italiani siamo bravissimi a ricordarci di cosa significhi essere rifugiati se i rifugiati siamo noi. Come capita proprio in questi giorni in cui si torna a scontrarsi sul tema delle foibe (come si legge QUI), che si lega al fenomeno dell’esodo degli italiani di Venezia Giulia, Istria, Quarnaro e Dalmazia alla fine della II guerra mondiale. Quelli sì, che erano “rifugiati” (e, beninteso, chi scrive non ha dubbi che lo fossero).
Fa comodo però dimenticare che avessero abitato terre in cui l’Italia (prima del e durante il fascismo) aveva ucciso, deportato, massacrato, fucilato, stuprato centinaia di migliaia di persone, che ne erano i legittimi residenti e proprietari. In Slovenia, Dalmazia, Montenegro. Esattamente come nella Libia di Mare in fiamme. Noi italiani siamo bravissimi a ricordarci di quando siamo stati perseguitati e oppressi, non lo siamo però altrettanto a ricordarci di quando siamo stati noi a perseguitare e opprimere altri popoli e altre nazioni.
Di questo e altro parleremo, domani, alle ore 19.00 a Roma allo Scalo Playground (che, nota bene, non è il Giardino Verano!), approfittando della presenza di uno storico come Davide Conti e di una docente come Gabriella Pandinu e, soprattutto, della generosa ospitalità di un’associazione come l’Anpi, che è la cosa che più mi onora.