Questo film vi farà male. Per questo dovete guardarlo. Applauso a Netflix e al regista Salvador Calvo. Non voglio dilungarmi in quella che sarebbe probabilmente l’ennesima recensione che direbbe le solite cose su un problema che nessuno vuole realmente risolvere, quello del dramma dei profughi d’Africa.

La “frontiera” stavolta non è il canale di Sicilia, ma il solo confine di terra realmente esistente fra Europa e Africa, ovvero quell’orrendo, mastodontico, lacerante muro con cui la fortezza del vecchio continente pretende di “difendersi” dalla grande madre dell’Umanità. È il muro di Melilla, città spagnola in territorio marocchino, del quale avevo parlato anni fa su Globalist in relazione al documentario Les Sauteurs, che vuol dire “I saltatori”. Perché se dalla Libia all’Italia si muore naufragando, su quel maledetto muro si muore impigliati nel filo spinato o sotto le manganellate di agenti di polizia mandati allo sbaraglio contro fiumi di disperati che cercano, appunto, di “saltarlo”. Ma questo è “solo” l’inizio della storia.

“Adù” parte da lì, dall’Africa del Nord, e poi ci porta per mano fra i mille, diecimila problemi dell’Africa equatoriale: la caccia agli elefanti, il cinismo degli occidentali, la miseria delle bidonville, la bellezza dei bambini e di chi cerca di farli sopravvivere. Una vera guerra quotidiana fra cuori di tenebra e cuori di esseri umani. Un film che non giudica niente e nessuno, semplicemente dice le cose come stanno, obbliga ad aprire gli occhi.

La storia di Adù, di sua sorella Alika e del suo dolce amico Massar, compagno di un viaggio spaventoso e strabiliante, vi spezzerà il cuore.

Per questo dovete conoscerla.