La mulatta

Il piccolo capolavoro di un romanzo storico di un’attualità sorprendente.

Deve essere stato proprio verso la fine di novembre che, in modo almeno all’apparenza casuale, mi è capitato fra le mani questo libro.

«C’era una volta su un pianeta strano, una negretta chiamata Bayangumay. Era apparsa sulla terra intorno al 1750, in un paesaggio calmo e complicato di delta, in una regione dove si mescolavano le acque chiare di un fiume, le acque verdi di un oceano e le acque nere di una palude – e dove l’anima, dicono, era ancora immortale. Ma gli abitanti di quel luogo non avevano Olimpo, né Walhalla, né Gerusalemme celeste, non amavano perdersi nelle nuvole, tenevano troppo alle loro vacche, ai loro prati salati e soprattutto alle loro risaie, che erano note e apprezzate in tutto l’occidente africano».

La mulatta

Il folgorante incipit di quello che si sarebbe rivelato il testo ipnotico, travolgente e poetico di un romanzo tutto sommato breve. La “mulatta” del titolo è in realtà la figlia della citata donna africana Bayangumay, deportata come schiava dai francesi. La mulatta dagli occhi chiari nacque in schiavitù a Guadalupa (Antille francesi), e fu gradualmente trascinata sull’orlo della follia dai maltrattamenti, dall’essere ripetutamente venduta come un oggetto, anche per via della sua bellezza, fino a diventare una “zombi”. Ma fra gli indiscussi meriti dell’autore, il pluripremiato romanziere André Schwarz-Bart, ebreo, partigiano, figlio di deportati ad Auschwitz, non c’è quello di aver inventato la protagonista, che è esistita davvero.

La mulatta Solitude

Nel 1999, è stata eretta la sua prima statua nell’isola di Guadalupa, opera di Jacky Poulier.

È a lei che la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, ha dedicato un giardino, nel XVII arrondissement, a settembre dello scorso anno, come ci spiega bene il quotidiano Il Manifesto, a questo link. Il nome con cui la bella mulatta passerà alla storia è Solitude; il motivo è che fu fra i protagonisti della ribellione degli schiavi nella sua isola, nel 1802. Ma come, direte voi, dopo la rivoluzione francese? Quella di Liberté egalitè bla bla bla, in nome di cui la schiavitù era stata abolita? Esatto. Perché Napoleone Bonaparte, secondo alcuni dietro pressioni della consorte Giuseppina (mulatta a sua volta, ma di ricchissima famiglia di proprietari terrieri e scampata alla ghigliottina nelle Antille come in Francia), ripristinò la schiavitù nelle colonie proprio in quell’anno. Un fulgido esempio di come anche le rivoluzioni possono essere razziste e di come i bei principi valgano solo per i bianchi.

Non è quindi un caso che la statua di Giuseppina, in occasione del movimento Black Lives Matter, sia stata fra le più prese di mira nella furia iconoclasta che non ha risparmiato l’isola di Guadalupa. Che, per chi non lo sapesse, è ancora oggi colonia di Francia.

Il romanzo è intenso, grazie a una scrittura che alterna l’epica della ribellione individuale a passaggi di vera poesia, e che gode di una traduzione eccellente a firma di Augusto Donaudy; la mano femminile si sente fra le righe, e infatti in realtà l’opera fu scritta da André assieme alla moglie Simone, anche lei scrittrice e nativa di Guadalupe. Sarebbe bello se fosse così anche per il nome, assente dalla copertina e dall’intero volume.

Poiché era incinta al momento della sua prigionia, Solitude fu impiccata solo il 29 novembre, un giorno dopo il parto, nell’anno 1802. A occhio e croce lo stesso giorno, nel 2020, in cui questo libro mi è capitato fra le mani.