Sul “ribellarsi”: la trascinante storia di un ebreo di Libia, anzi un italo-libico, oppure no, un francese anche un po’ italiano.

Continuando la ricerca sui drammi e i crimini del colonialismo italiano mi sono imbattuto in un volume di raro pregio: “Il ribelle”, pubblicato da Le lettere nel 2003, a firma di Arthur Journo, un ebreo tripolino nato nel 1916. Mai titolo fu più azzeccato. Più che un romanzo, si tratta del diario del protagonista, scritto in prima persona, sin dall’infanzia a Tripoli, dunque nella Libia amministrata come colonia dall’Italia liberale pre-fascista e, poco dopo, fascista, in cui cresce in strada fra coetanei ebrei, arabi, maltesi, italiani, da subito rifiutando la propaganda delle camicie nere; la gioventù, durante la seconda guerra mondiale, costellata dei suoi episodi di altruismo nei confronti di chiunque (compresa una famiglia comunista italo-libica perseguitata dai nazisti), da rocambolesche fughe nella vicina Tunisia per sfuggire alle leggi razziali e ai Tedeschi, e persino da saltuarie attività di spionaggio al porto, per conto dei francesi; ancora, dopo la fine del conflitto, quando entra nell’Aliah Bet e in barba al controllo inglese contribuisce alla fuga clandestina, attraverso l’Italia, di migliaia di ebrei verso il nascente stato di Israele, e sfugge a terribili pogrom da parte degli arabi; fino alla propria emigrazione in Israele, dove manifesta immediata repulsione per i metodi con cui sta venendo edificato il nuovo stato e, da ebreo libico sefardita che non conosce l’yiddish, subisce le angherie della maggioranza askenazita, ragion per cui decide di tornare a vivere in Libia, paese ormai “nemico” nel quale invece Arthur continua alternativamente ad arricchirsi e dilapidare tutto, con la stessa nonchalance con cui non esita mai ad aiutare chiunque, di qualsiasi nazionalità, religione, estrazione sociale. È solo nel 1967, con la Guerra dei Sei giorni e l’ennesimo pogrom antiebraico che Arthur si stabilisce definitivamente a Roma, dove continua ad alternare fasi di ricchezza, attraverso le imprese commerciali in Zaire (ex Congo), e povertà, nel piccolo negozio al centro della Capitale italiana.

Un racconto appassionante, descritto con un linguaggio semplice e senza troppa tecnica, ma proprio per questo autentico, umano, trascinante. Una vita da vero ribelle, un uomo che non ha mai perduto in sé il bambino che aveva schifo dei fascisti (brano in alto), e che la ribellione la interpretava nella propria quotidianità, quando necessario anche alzando le mani, comprando fucili o fabbricando Molotov; un uomo orgoglioso della propria appartenenza senza mai ritenerla migliore di quella degli altri, e non risparmiandole critiche, anzi prendendosela molto più spesso con i propri “correligionari” che con gli arabi (con molti dei quali intratteneva ottimi rapporti personali e d’affari), come quando prende a pugni un rabbino colpevole di aver inflitto una punizione corporale al fratello (brano in calce) o racconta le prepotenze subite nel nascente Israele, a partire dalla confisca del passaporto, cosa che gli renderà molto difficile tornare nella sempre amata città natale, Tripoli. Un ritratto della cultura e di una società ebraiche diverso da quello a cui gli stereotipi ci hanno abituati, e dal quale c’è molto da imparare e capire sulla storia del Novecento. Ad arricchirlo, la pregevole prefazione di Miriam Mafai, che giustamente dipinge questa storia vera come una specie di noir anni Cinquanta, in cui si muovono delinquenti dai modi gentili, politici corrotti, agenti doganali scaltri, uomini avidi di ogni risma e faccendieri di alto bordo. Fra loro, come fra le persone oneste quali l’autore, scompare ogni differenza di etnia, lingua o religione.

Nel finale, poco prima di guardarci con la sua aria sorniona dalla fotografia dello splendido ottantatreenne, Journo tira le somme e parla dell’ingratitudine dei suoi figli, e dei suoi presunti insuccessi economici. Viene quasi paura che la consapevolezza di quanto più importante, nella sua straordinaria vita (persino per chi semplicemente la legga) sia ben altro che aver “bruciato un grosso patrimonio” quasi non lo sfiori. O forse è solo l’ultimo atto di modestia.

Un libro che ti fa venir voglia di incontrare il suo autore, una voglia che (solo in parte) è appagata dal bell’apparato fotografico in appendice. L’editore vorrà perdonarmi se ne pubblico due estratti significativi, che non potranno che invogliare alla lettura di questa affascinante testimonianza.

Da leggere. Lo trovate qui.

3 Ottobre
3 Ottobre